L’omicidio di Marco Vannini. Considerazioni all’esito del Giudizio di primo grado.
di Flaminia Bolzan e Chiara Penna
Prendiamo in prestito le parole di Fabrizio De André che nella sua “Guerra di Piero” sostiene che ci voglia tanto, troppo coraggio, a morire in un mese come quello di maggio e Marco Vannini se ne è andato proprio in un bel giorno di primavera del 2015, ma non è caduto a terra senza un lamento, né per mano di qualcuno con la divisa di un altro colore.
Marco Vannini non era in guerra, bensí a casa della sua fidanzata, quando è stato attinto dal colpo di arma da fuoco che gli è stato fatale.
Ebbene, prima di entrare nel vivo di un pensiero relativo all’evoluzione e alla prima statuizione di un procedimento lungo, complesso, in cui le condanne hanno interessato un intero nucleo familiare, riteniamo utile soffermarci su vari punti di questa storia, a cominciare dal primo, il più importante: Marco Vannini si poteva salvare.
Diamo per scontato che i lettori siano a conoscenza, almeno a grandi linee, dei contorni di questo caso, motivo per il quale senza indugiare su grossi preamboli entriamo subito nel merito di quelle che sono state le risultanze delle perizie e dei rilievi tecnici: ovvero che, la “scena del crimine” è stata alterata e le errate informazioni fornite rispetto alla tipologia e alla modalitá con cui era stata prodotta la lesione riportata da Marco Vannini hanno comportato un enorme ritardo nei soccorsi, un fatto, quest’ultimo, che avrebbe un inequivocabile “rapporto di causalitá” con la morte del giovane.
In buona sostanza nel chiamare il 118 Antonio Ciontoli ha omesso le reali cause della ferita di Marco, parlando del foro di un pettine invece che della ferita causata da un’arma da fuoco.
Se così non fosse stato al caso di Marco sarebbe stato attribuito automaticamente un codice rosso e il giovane sarebbe stato portato immediatamente in elicottero al Policlinico Gemelli di Roma, in un tempo che è stato calcolato all’incirca di 15 minuti.
La condanna in primo grado per l’intera famiglia Ciontoli é quindi arrivata, anche se con una sostanziale differenza in termini di apporto di ogni singolo imputato alla realizzazione dell’evento tragico che ha causato la morte del ragazzo, rispetto a quanto richiesto dall’accusa in requisitoria.
E la difformità tra le condanne stabilite dalla Corte di Assise e le richieste della Procura – laddove la PM Alessandra D’Amore lo scorso 21 marzo aveva formulato le richieste di condanna, rispettivamente a 21 anni per Antonio Ciontoli (che dello sparo “accidentale” si è assunto la “paternitá”), 14 anni per la Signora Pezzillo e per i figli Martina e Federico e due anni per la fidanzata di Federico, Viola Giorgini, che pure sulla scena di quel crimine era presente nel momento in cui il colpo di pistola attingeva Marco al torace – non vanno superficialmente intese solo in termini di diversi anni di carcere – 14 anni per Antonio Ciontoli e 3 anni per i congiunti – comunque significativi.
Perché in tale pronuncia si manifesta, infatti, la evidente differenza tra la ricostruzione fornita dall’inquirente, che vedeva tutti gli imputati responsabili in concorso per omicidio volontario e quella cui é invece giunto l’organo Giudicante che, ritenendo il solo Antonio Ciontoli responsabile del reato di omicidio volontario, non solo riconduce la responsabilità dei figli e della moglie all’alveo della colpa, ma assolve dal reato di omissione di soccorso Viola Giorgini.
Questo è il dato che l’opinione pubblica deve ben tener presente: cambia il titolo di reato per 3 imputati e cambia l’intera criminodinamica dell’evento rispetto a quanto sostenuto dalla Procura.
In che modo la Corte sia arrivata a tale decisione sarà noto solo al momento del deposito dei motivi della sentenza, ma ad oggi é chiaro come i giudici abbiano ritenuto il solo imputato Antonio Ciontoli responsabile di aver agito con piena consapevolezza, cagionando un decesso evitabile se il soccorso fosse stato attuato tempestivamente e secondo modalità e tempi ragionevoli, mentre gli altri avrebbero agito solo con negligenza ed imprudenza.
Da un punto di vista giuridico questo non stupisce, dal momento che tutti i Ciontoli erano comunque imputati del reato di omicidio volontario sorretto dal dolo eventuale, quindi nella sua forma più lieve ed al limite con la colpa cosciente.
Quest’ultimo, a differenza del dolo intenzionale e di quello diretto, si caratterizza appunto per il fatto che il risultato della condotta – in questo caso il decesso di Marco Vannini – non è voluto in via diretta come conseguenza dell’azione (o omissione), ma viene previsto come una delle sue possibili conseguenze.
Pertanto, per quanto riguarda il Sig. Ciontoli, pur muovendoci certamente sempre nell’ambito della piena volontarietà dell’evento illecito e non in quello della colpa per negligenza o imprudenza, l’atteggiamento psichico dell’autore del reato cambia in riferimento al “grado” di volontarietà rispetto all’omicidio volontario con dolo intenzionale o con dolo diretto.
Infatti, se nell’omicidio volontario con dolo intenzionale la morte della vittima è conseguenza rappresentata e voluta proprio come obiettivo dell’azione e nell’omicidio con dolo diretto essa non costituisce lo scopo finale della condotta dell’autore – esempio classico è il rapinatore che ha come scopo mettere in salvo il ricavato ma uccide uno dei poliziotti intervenuti per fermalo – nel dolo eventuale, anche se l’uccisione di un uomo non costituisce l’obiettivo perseguito, essa viene preveduta come conseguenza possibile della condotta posta in essere.
Sotto il profilo psicologico, l’elemento caratterizzante il dolo eventuale è, pertanto, l’accettazione del rischio.
Nel caso specifico, i Giudici di primo grado all’esito dell’istruttoria hanno evidentemente ritenuto provati tutti gli elementi in riscontro al fatto che solo Antonio Ciotoli non allertando prontamente il 118, approntando delle cure casalinghe, non dichiarando immediatamente al personale medico preposto che il malore del ragazzo era stato causato da un colpo di arma da fuoco, pur essendone pienamente consapevole, abbia accettato il rischio che il tacere queste informazioni ed il ritardare le cure potesse causare la morte del ragazzo, come è effettivamente avvenuto.
Ciò al fine principale ed illogico di evitare probabilmente il coinvolgimento della famiglia in un procedimento penale e risolvere la questione privatamente.
Tutti gli altri avrebbero agito senza l’elemento intenzionale.
Ovviamente si tratta di una sentenza di primo grado le cui motivazioni dovranno spiegare puntualmente non solo l’estraneitá alla vicenda di Viola Giorgini, ma soprattutto dettagliatamente ed al di là di ogni ragionevole dubbio come un’intera famiglia si sia trovata coinvolta in una vicenda così complessa nella dinamica e nelle motivazioni e di come l’imputato principale, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si sia rappresento la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori gravissime conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, abbia perseverato accettando il rischio di cagionarle.
Proprio in merito a questa ultima osservazione appare necessario, oggi, sollevare una serie di dubbi che attengono la sfera delle relazioni familiari.
Se infatti i dati tecnici hanno portato a dibattere sugli aspetti medico legali, sull’intervento dei soccorsi e sulle menzogne dei Ciontoli, in questa sede dobbiamo interrogarci sui meccanismi psicologici che forse sono intervenuti nel momento in cui tutte le persone presenti, pur essendosi rese conto dell’accaduto (è impossibile ipotizzare e sostenere che i soggetti presenti non fossero a conoscenza del fatto che Marco era stato attinto dal colpo d’arma da fuoco), hanno ignorato l’opportunitá di agire in maniera corretta sulla spinta di una probabile coesione in cui, però, possiamo legittimamente argomentare, a questo punto, che qualcuno abbia potuto di fatto “decidere”.
Ebbene, dobbiamo perciò domandarci cosa sia scattato nella mente di tutti i soggetti quella fatidica sera e come mai nessuno, a vario titolo, si sia imposto rispetto al “fare la cosa giusta”.
La “famiglia” è stata a lungo ammantata da un alone di sacralitá e di privatezza ma noi possiamo leggere questo particolare “gruppo” alla luce di un po’di sana teoria evidenziando come il nucleo familiare sia di fatto un’organizzazione “relazionale” all’interno di un ambiente simbolico complesso.
Per tentare quindi di comprendere ad un livello più profondo ciò che prescinde dalla sola veritá processuale, dobbiamo fare lo sforzo di entrare in quest’ottica e iniziare a spiegare come il “sistema famiglia” sia da considerare un’entitá e non un “agglomerato di individui”, laddove la singola individualitá perde quindi di importanza in funzione di qualcosa di più grande.
Questo sistema è regolato da una rete di relazioni il cui scopo principale è quello del “mantenimento” del sistema stesso dove c’è una sorta di “copione familiare” che guida i contributi dei singoli attraverso alcune determinanti importantissime tra cui la devozione e la lealtà.
Sempre in una prospettiva sistemica noi sappiamo che le relazioni tra i membri sono determinate da una legge sottile che opera al fine di preservare l’equilibrio e il benessere della famiglia e questo principio viene definito “lealtá familiare”: Se da un lato questa svolge un’azione di salvaguardia per i vari componenti, dall’altro, però funge da limite.
In questo senso possiamo infatti ragionare sul fatto che se non si fosse trattato di un gruppo con un’affiliazione così potente, con maggiore probabilitá, il tenore delle telefonate al 118 sarebbe stato un altro e un altro sarebbe forse stato l’epilogo.