La violenza di genere. Le origini del “femminicidio”
In tema di omicidi di donne ad opera di uomini loro compagni, mariti o ex partner, ci si riferisce con molta facilità al termine femminicidio, spesso ignorando come il termine nasca negli anni novanta per scelta politica.
Il fine era, infatti, quello di introdurre un’ottica di genere nello studio di crimini “neutri” e rendere visibile il fenomeno verificato all’epoca dalle criminologhe femministe, secondo cui la causa principale dei decessi delle donne comprese tra i 16 e i 40 anni fosse l’omicidio per mano di conoscenti. La volontà era, dunque, di potenziare l’efficacia delle risposte punitive in quelle realtà in cui, secondo la criminologa statunitense Diana Russell, l’autodeterminazione della donna ed il fatto di aver trasgredito al ruolo ideale impostole dalla tradizione, di pretendere la libertà di decidere cosa fare della propria vita, nonché di volersi sottrarre al potere ed al controllo del proprio padre o compagno, era punita con la morte. Emblema questo di tutte le società patriarcali che “hanno usato e continuano a usare il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne” e che puniscono la donna “in quanto donna” con la morte provocata non solo dal singolo uomo che si è incaricato di punirla, controllarla e possederla uccidendola, ma soprattutto dalla società.
Nello stesso senso Marcela Lagarde, antropologa messicana e teorica del femminicidio, precisava che: “la cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza; (…) siamo davanti a una violenza illegale ma legittima: questo è uno dei punti chiave del femminicidio”.
Il femminicidio – secondo Marcela Lagarde – è dunque un problema strutturale, che va al di là degli omicidi delle donne e riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella propria identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica e nella difficoltà di uscire da quelle situazioni che non consentono alla donna di ricostruirsi una vita e riappropriarsi di sé.
In particolare, inoltre, si parlava di femmicidio nel caso in cui la condotta fosse consistita nell’uccisione di una donna/bambina/omosessuale/transessuale in ragione del genere di appartenenza, mentre di femminicidio qualora si fossero verificate una vasta gamma di condotte discriminatorie e violente rivolte contro la donna “in quanto donna” in violazione dei diritti fondamentali, con l’eliminazione fisica o l’annullamento di ogni possibilità di godere delle libertà concesse invece ai consociati maschi.
Femminicidio è pertanto, “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta come suicidi, incidenti o sofferenze psichiche comunque evitabili, procurate dall’insicurezza e dovute sia al disinteresse delle Istituzioni, sia all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”. (Spinelli B. “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”, Franco Angeli, 2008. /ref).
Per ripercorrerne la storia, il termine sale alla ribalta delle cronache internazionali grazie all’impegno delle donne messicane attiviste, accademiche e giornaliste, che con la loro attività di denuncia arrivano ad ottenere il riconoscimento della responsabilità dello Stato del Messico per il perdurare di crimini orrendi nei confronti delle donne uccise nella città di Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, dove dal 1992 più di 4.500 donne risultavano scomparse e più di 650 stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate ai margini del deserto, il tutto nel disinteresse delle Istituzioni, con complicità tra politica, forze dell’ordine, criminalità organizzata e insabbiamento delle indagini.
Per tutte le violazioni dei diritti umani delle donne che continuavano a restare impuniti, infatti, le attiviste messicane riuscivano a far eleggere Marcela Lagarde parlamentare la quale, presiedendo una Commissione Speciale sul femminicidio, giungeva ad ottenere l’approvazione di una legge organica che sanciva l’introduzione nei codici penali del reato di femminicidio, frutto di un attento studio del fenomeno e di una rielaborazione di informazioni reperite nell’arco di dieci anni presso procure generali, ONG, istituti di statistica, Corte suprema e organizzazioni civili. Tutto ciò determinava l’insorgere di una consapevolezza nella società civile e nelle Istituzioni sulla effettiva natura di questi crimini e rendeva possibile una maggiore conoscenza del fenomeno attraverso la predisposizione di accurate indagini socio-criminologiche.
Emergevano così non solo una cultura maschilista dominante ed un totale disinteresse del legislatore riguardo la tutela delle donne – ad esempio, le leggi in vigore non prevedevano neanche lo stupro coniugale come reato e sancivano la non punibilità dello stupratore che avesse sposato la donna vittima di violenza – ma si evidenziava la responsabilità di uno Stato non in grado di garantire il diritto delle donne all’integrità psicofisica ed a vivere con sicurezza e dignità nella propria comunità. Per l’inefficacia dimostrata nel prevenire, perseguire, e punire ogni forma di discriminazione e violenza di genere, La Corte Interamericana per i diritti umani, con la sentenza dell’11 dicembre 2009 denominata “Campo Algodonero”, riteneva dunque responsabile lo Stato messicano per non aver adeguatamente prevenuto la morte di tre giovani donne, i cui corpi furono ritrovati in un campo di cotone nei pressi di Ciudad Juarez e riconosceva come i casi in questione fossero emblematici di una situazione generale vissuta dalle donne di Ciudad Juarez come violazione strutturale dei loro diritti umani sulla base del genere di appartenenza.
(ref. RUSSELL Diana- RADFORD Jill, (1992) Femicide, the politics of woman killing, New York,Twayne Gale Group; RUSSELL Diana – HARMES A. Roberta, (2001), Femicide in global perspective, NewYork, Athena series; LAGARDE Y DE LOS RIOS Marcela, (2004 e 2006) Por la vida y la libertad de lasmujeres: Fin al feminicidio. MONARREZ FRAGOSO J., Elementos de analisis del feminicidio sexual sistemicoen Ciudad Juarez para su viabilidad juridica, in “Femminicidio, Justicia y Derecho”, LIX Legislatura,COMISION ESPECIAL PARA CONOCER Y DAR SEGUIMENTO A LAS INVESTIGACIONESRELACIONADAS CON LOS FEMINICIDIOS EN LA REPUBLICA MEXICANA Y A LA PROCURACIONDE JUSTICIA VINCULADA, Messico, novembre 2005; NADERA SHALOUB – KEVORKIAN, (2003) Reexamining femicide: breaking the silence and crossing scientific borders, in “Signs”, Chicago, Winter 2003,volume. 28, Iss. 2. GIURISTI DEMOCRATICI – SPINELLI Barbara, a cura di, Violenza sulle donne:parliamo di femminicidio. Spunti di riflessione per affrontare a livello globale il problema della violenza sulle donne con una prospettiva di genere, Bologna, 2006. www.giuristidemocratici.it; SPINELLI Barbara (2008) Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, FrancoAngeli, Milano; SPINELLI Barbara (2008) , “Femicide e feminicidio: nuove prospettive per una lettura gender oriented dei crimini contro donne e lesbiche” nella rivista criminologica “Questione criminale”, Carocci, novembre 2008).
Quando si parla di femminicidio si parla, dunque, di una politica inerte ed inadeguata, di violazioni dei diritti umani e di donne che da vittime si sono trasformate in soggetti politici artefici del cambiamento della realtà nel loro Paese.
Oggi, nell’ambito del diritto umanitario internazionale, i diritti delle donne sono affermati da numerose Convenzioni ONU tra cui la principale è la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW); pertanto, per potersi riferire in relazione alle nostre donne assassinate al termine femminicidio, bisognerebbe conoscere la storia che sta alla base della scelta di dare all’uccisione di una donna una connotazione di genere e valutare se vi sia da parte dello stato italiano una violazione di tali diritti riconosciuti a livello internazionale (ref. “Femminicidio”, Alto Commissariato ONU per i diritti umani in Messico, 2009 /ref) .
Per parlare di femminicidio, dunque, il bene giuridico tutelato deve essere il diritto della singola donna e del genere femminile ad una vita libera dalla violenza e da ogni forma di vessazione discriminatoria basata sul sesso.
Essenziale è pertanto capire il contesto in cui sorge l’esigenza di codificare il reato di femmicidio/femminicidio, là dove il diritto alla vita e all’integrità psicofisica vengono messi in discussione dalle discriminazioni basate sul sesso.
Non a caso, nella maggior parte dei Paesi che hanno introdotto questo crimine, si trattava della prima forma di legislazione nazionale diretta a sanzionare specificamente la violenza contro le donne, rendendola in tal modo visibile anche per l’ordinamento giuridico.
Per quanto riguarda, dunque, l’aggiunta di un capitolo specifico sul femminicidio nel Codice Penale italiano, non può non considerarsi il fatto che, dare un nome a tale realtà nel nostro Paese, cercando di evidenziarne le peculiarità nel senso del termine così come teorizzato, appare allo stato poco prospettabile per diversi motivi.
Introdurre il reato di omicidio distinto per genere solleva perplessità giuridiche connesse non solo all’individuazione delle condotte al fine di formalizzare giuridicamente la categoria del femminicidio nel rispetto del principio di tassatività, ma soprattutto in relazione alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza senza distinzione di sesso, razza o religione.
Ed è proprio in virtù di questo principio fondamentale che il Codice Penale non è improntato in un’ottica di genere, ma contiene norme che tutelano la vita dell’essere umano in quanto tale. Esse sono numerosissime: il reato di omicidio di cui all’art. 575 c.p. con le relative aggravanti 576 e 577 che già prevedono l’ergastolo – in particolare l’art. 576 n. 5 e 5.1 c.p. prevede il caso in cui l’omicidio avvenga in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli 609 bis (violenza sessuale), quater (atti sessuali con minorenni) e octies (violenza sessuale di gruppo), o sia commesso dall’autore del delitto previsto dall’art. 612 bis (atti persecutori) nei confronti della stessa persona offesa – l’omicidio colposo 589 c.p., l’omicidio del consenziente 579 c.p., l’istigazione al suicidio 580 c.p., l’omicidio preterintenzionale 584 c.p. o il reato di morte come conseguenza di altro delitto 586 c.p. . Una distinzione di genere nel reato di omicidio in un Paese democratico parrebbe peraltro molto pericolosa anche in sede processuale, poiché essa rappresenterebbe la violazione dei principi fondamentali sui quali si costruisce la convivenza civile e si garantisce una giustizia uguale per tutto il genere umano.
Non si può dire neanche che vi sia inerzia del legislatore in relazione alla tutela delle donne né in campo civilistico, né in materia penale. Basti pensare alla Legge n. 66 del 15 febbraio 1996 sulla violenza sessuale, che introduce nel Codice Penale gli Artt. dal 609 bis al decies, la Legge n. 194/78 sull’aborto, la Legge n. 75/58 e s.m.i. che regola la prostituzione ed in ultimo il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38 che introduce all’art. 612 bis c.p. il reato di Atti persecutori. Senza contare le altre norme del Codice Penale che tutelano senza distinzione di genere i diritti, le libertà, l’onore ed il decoro della persona: percosse, lesioni, mutilazione organi genitali, tratta, sequestro di persona, violenza sessuale, minaccia, violenza privata, ingiuria, diffamazione, maltrattamenti in famiglia e violazione degli obblighi di assistenza.
Per introdurre dunque, il reato di femminicidio in Italia, bisognerebbe prima valutare attraverso uno studio tecnico e sistematico, preceduto da una corretta analisi scientifica dei casi di omicidio su tutto il territorio, se effettivamente tali aventi criminosi necessitino di un intervento legislativo così invasivo al fine di arginare azioni frutto di meccanismi sociali e di potere che rendono tollerabile la soggezione delle donne ai ruoli tradizionali, trattandosi in questo caso di violenza rivolta nei confronti di quelle donne che tentano di fuggire dai “ruoli” che la società patriarcale impone.
È fondamentale, inoltre, che vi sia una responsabilità dello Stato a livello internazionale, cagionata dall’indifferenza delle Istituzioni per il riaffermarsi di una cultura patriarcale che discrimina le donne, non adempiendo alle obbligazioni internazionali di promozione di una cultura di genere assunte con l’adesione al sistema giuridico internazionale umanitario.
Solo in tal caso si può parlare di femmicidio o di femminicidio come forma di discriminazione e violenza di genere e manifestazione non solo di un potere relazionale storicamente diseguale tra uomini e donne ma anche di un meccanismo sociale attraverso il quale le donne sono costrette ad occupare una posizione subordinata rispetto agli uomini.
Diversamente, uccidere una donna è e rimane un omicidio che merita una sanzione pari a quella prevista dal Codice nel caso in cui la vittima sia un uomo. Se si presupponesse senza una corretta analisi della motivazione intrapsichica sottesa all’omicidio che commettere un reato contro un genere sessuale sia più grave che compierlo verso l’altro genere sessuale, ci sarebbero ulteriori difficoltà applicative qualora a compiere l’atto omicidiario fosse una donna contro un’altra donna. In questo caso si avrebbe una ulteriore distinzione in base all’agente e non solo in base alla vittima, la cui vita avrebbe un valore diverso a seconda dell’assassino.
Quello su cui bisognerebbe immediatamente riflettere è piuttosto il fatto che in molti casi, le donne vittime di omicidio sono già note per avere contattato le forze dell’ordine, per aver denunciato o per aver esposto la propria situazione ai servizi sociali, ma nessuno è stato capace di un intervento adeguato. Non certo per disinteresse o volontà di “insabbiare” come accadeva tragicamente in Messico, ma per l’incapacità di far funzionare correttamente i meccanismi di prevenzione e di protezione utilizzando gli ampi strumenti che lo Stato già possiede.
Questo è il vero quadro devastante: vanificare i servizi e la professionalità offerti dalle associazioni di donne, dai centri antiviolenza e dal volontariato per la mancanza di una cultura di ascolto della vittima, carenza questa, che non si registra solo nel caso in cui si parla di vittime donne.
L’informazione parziale, le leggi già in vigore male applicate che rischiano di far diventare due volte vittime, nonostante i tanti passi avanti registrati degli ultimi anni e nonostante sia sempre maggiore l’attenzione alla formazione e alla protezione delle donne, è cosa ben diversa dal femminicidio, del quale non può parlarsi in maniera acritica, ignorandone la storia e facendone l’ennesimo slogan politico passeggero veicolo della cultura dell’emergenza che supera i principi costituzionali e di diritto penale sostanziale, lamentando una mancata reazione collettiva ad una cultura assassina.